Quando arrivi nella splendida città di Equitalia ti stupisci subito per la pulizia delle strade lastricate di porfido, per lo scintillio delle turche dei gabinetti pubblici, dell’estrema accoglienza e soffice fragranza della sala d’aspetto della Stazione Ferroviaria in stile Rococò, ove treni scintillanti d’argento corrono su rotaie di pandispagna (per non fare rumore).
Ma lo stupore iniziale viene poi superato dalla soprendente puntualità dei tram, dalla fulgida efficienza della sanità pubblica, dalla tenerezza del buffetto gentile che le maestre danno a tutti i bimbi dell’asilo, tutte le mattine.
Tutti pagano le tasse, le aiuole pubbliche sono piene di fiori, e gli spazzini bighellonano pigramente svolgendo il loro poco lavoro, poiché nessuno sporca. Le carceri? Erano sempre vuote, le hanno ridipinte di lillà e riconvertite in agriturismi.
Insomma, non c’è proprio niente di cui lamentarsi, nella splendida città di Equitalia. Di conseguenza, chi può fuggirne, ne fugge, e chi è costretto a viverci, si suicida dalla noia.