Anidride Carbonica n.2

Un’altra soluzione per far fuori l’anidride carbonica di origine antropica era quella di darla da mangiare ai maiali.

L’idea era questa: si prendono gli scarichi delle ciminiere, li si convoglia in un catalizzatore apposito trifolato farcito alla crema con isolante in turballuminio morbido e macramè, si porta tutto a 280.000 gradi e l’anidride carbonica ne esce solidificata, in palline sferiche al gusto di pastone per maiali, pronto da buttarlo dentro al truogolo del suino semper famelicus.

All’inizio il maiale ‘sto pastone lo mangiava volentieri, e veniva fuori un prosciutto che sapeva di acqua gasata: faceva schifo, ma con una opportuna campagna di marketing promoting, branding fidelisation e customer satifaction, insomma, il fesso che lo comprava lo trovavi.

Poi si vede che il suino non è così ingenuo come sembra, e da un certo punto in poi il pastone carbonioso non l’ha più mangiato. Sembrava quasi che avesse sgamato il trucco, e dicesse: “uomo, l’anidride carbonica te la fai tu e te la mangi tu.”

Allora era venuto fuori uno scienziato che era riuscito a modificare il DNA dei maiali, creando dei suini che si nutrono solo di pastone all’anidride carbonica; è vero che poi magari il maiale transgenico blu faceva impressione a vedersi, ma tanto mica la casalinga va a vedere di che colore era il maiale da vivo. Eppoi, basta che il commesso del reparto macelleria abbia due tatuaggi sul braccio e parli come Cannavaro, che la casalinga s’ingrifa e ti compra tutto quello che vuoi.

Ma tanto poi non se n’è fatto più niente, perchè una mattina son venuti fuori quei rompimaroni degli animalisti, che hanno cominciato a dire: “eh, no, eh! il povero maiale lasciatelo stare e no OGM e no qui e no là.”

Eh, vabè, però, signori animalisti: a sto punto però l’effetto serra ce lo teniamo così com’è, e sia ben chiaro che poi sarà colpa vostra. Gli ecologisti una soluzione concreta l’avevano trovata, a voi non va mai bene niente, e vabè allora mandiamo il mondo in malora, e che muoia Sansone con tutti i filistei, e l’ultimo chiuda la porta, come diceva Patsy di Nick Carter.

Presidio no Fud n.2

La Polenta Infinita di Pergine Valsugana è un particolare tipo di polenta estremamente gustosa e nutriente caratterizzata da un tempo di cottura molto lungo, che si aggira intorno ai 3 anni.

La ricetta tradizionale richiede che la rimestatura sia solo manuale (non sono ammessi i paioli motorizzati) e che la cottura avvenga sulla stufa a legna (il fuoco naturale dà alla polenta un aroma inconfondibile di lignite incombusta e di polonio radioattivo).

Di solito è la nonna che, in una mattina uggiosa di novembre, mette il paiolo sulla stufa, comincia a far bollire l’acqua e butta la farina, mescolando a mano con un bastone di pino cembro maschio di almeno cinquanta anni tagliato in una notte di luna nuova nel versante della montagna dove la luna non batte mai (comunque va bene anche un manico di plastica dell’IKEA).

Dopo alcuni giorni di mescolamento continuo giorno e notte, di solito l’anziana è stremata dalla fatica, preda di crampi ed embolie, e di lì a poco muore. L’opera di continuo rimescolamento (e continuo rabbocco di acqua) viene quindi proseguita dalle generazioni più giovani, lungo i 36 mesi di cottura.

Quando finalmente si alza la voce “l’è pronta”, di solito tutta la famiglia si lascia andare a urli e pianti di gioia, i vicini accorrono a vedere cosa è successo, la voce si sparge in fretta, il cappellano suona le campane, è grande festa per le strade, l’intero paesino di montagna corre a congratularsi con la famiglia che ha appena compiuto l’impresa, e la polenta lasciata abbandonata sul fuoco si attacca, brucia e diventa immangiabile, e viene gettata nel pastone dei porci insieme alle ghiande e alle bucce di patata.

Per questo motivo, nessuno riesce mai a mangiare un piatto della Polenta Infinita di Pergine Valsugana, che però si immagina buonissima, visto che i maiali la trangugiano volentieri.

L’unico modo di riuscire ad assaggiarla è di farla senza dirlo in giro, di modo che poi quando è ora di versarla non c’è nessuno che arriva in cucina a rompere i maroni.